Questo articolo è dedicato a Carl Gustav Jung (Kesswil, 26 luglio 1875 – Küsnacht, 6 giugno 1961), padre della psicologia analitica. In questo articolo parlerò di alcuni punti chiave per conoscere Jung e la psicologia analitica.

I primi anni di attività di Carl G. Jung

Nel 1895, Jung, si iscrisse alla facoltà di Medicina presso l’Università di Basilea. Durante questi anni si interessò allo studio della psichiatria e fu catturato dagli aspetti biologici e spirituali. Dopo aver conseguito la laurea nel 1900, iniziò a lavorare presso la clinica psichiatrica Burghölzli diretta da Eugen Bleuer.

Jung si addentrò nel sentiero della psicoanalisi a partire dal 1904, periodo in cui collaborò con Franz Riklin (1857 – 1939), pubblicando Ricerche sperimentali sulle associazioni di individui normali (1904-1905). In precedenza, aveva avuto modo di leggere gli scritti di Freud, in particolare L’interpretazione dei sogni (1899).

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Il rapporto tra Freud e Jung

Nei primi anni, Jung, si dedicò allo studio della schizofrenia, con particolare attenzione ai complessi (N.B. saranno introdotti a breve), pubblicando Psicologia della dementia praecox (1907). La sua monografia, inviata a Freud, venne accolta con entusiasmo dal padre della psicoanalisi e da questo momento in poi inizierà un fiorente sodalizio tra i due.

Come era ben noto, Freud considerava Jung un suo discepolo, o meglio il discepolo “prediletto” a cui affidare la guida del movimento psicoanalitico, e si aspettava una accettazione incondizionata della sua teoria. Al contrario, Jung vedeva questo rapporto come una libera collaborazione aperta alle diversità di pensiero. Infatti,

[Freud] investito sicuramente dei tratti della figura paterna ma non certo di quelli del maestro indiscutibile custode dell’unica verità. In altre parole, Jung pensava di essere arrivato all’incontro con Freud e le sue idee seguendo un proprio percorso che intendeva proseguire senza che questo significasse sottomettersi a dogmi non condivisi, come quelli della teoria sessuale.

G. Concato, Manuale di psicologia dinamica, 2006, p. 96

Quindi, non è corretto ricordarlo come “l’allievo” o il “discepolo” di Freud.

Il concetto di libido

Il dissenso fra Freud e Jung partì proprio dal concetto di libido. Iniziando da Freud:

Abbiamo definito il concetto di libido come una forza quantitativamente variabile, che fosse atta a misurare processi e conversioni nel campo dell’eccitamento sessuale. Questa libido la distinguiamo, riferendoci alla sua origine specifica, dall’energia che in generale dev’essere supposta nei processi psichici, e in tal modo le conferiamo anche un carattere qualitativo.

S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, 1905

Invece, Jung, nell’opera Simboli della trasformazione, usa, inizialmente, il termine «energia psichica»:

nella mia opera Psicologia della dementia praecox (1907), mi sono tratto d’impaccio ricorrendo al termine «energia psichica», perché ciò che viene a mancare è qualcosa di più del semplice interesse erotico.

C.G. Jung, Simboli della trasformazione, 1952

Infatti, Jung rivede la libido come “energia” in senso lato:

Un fiume che scorre ramificandosi in una inesauribile varietà di attitudini e attività umane, tra cui anche ogni tipo di attività intellettuale o creativa, la fantasia, l’immaginazione, l’arte e l’espressione simbolica, senza che a proposito di tutte queste manifestazioni non sessuali si debba parlare di semplice sublimazione di una basilare pulsione sessuale.

G. Concato, Manuale di psicologia dinamica, 2006, p. 97

Quindi, si può aggiungere che l’energia del mondo inconscio è in attesa di essere espressa e la strada da privilegiare nell’analisi è lo studio dei complessi:

La via regia per l’inconscio non sono però i sogni, […], bensì i complessi, che sono la causa dei sogni e dei sintomi.

C.G. Jung, “Considerazioni generali sulla teoria dei complessi”, in La dinamica dell’inconscio, in Opere, Vol.8, Boringhieri, Torino,1976

I complessi

L’intuizione sui complessi avvenne nel periodo (1900 – 1909) in cui Jung stava lavorando presso l’ospedale psichiatrico Burghölzli di Zurigo. In quel periodo stava svolgendo una ricerca sulle associazioni verbali con l’ausilio di un reattivo per la misura dei tempi di reazione introdotto in psichiatria da Kreepelin (ma inventato originariamente da Galton).

Il compito era molto semplice, Jung enunciava una parola stimolo alla quale il soggetto doveva rispondere con la prima parola che gli veniva in mente e ne misurava il tempo di risposta. In quest’occasione, Jung notò che il tempo di risposta aumentava quando la parola stimolo era associata a qualcosa di spiacevole. Infatti, denominò complesso a tonalità affettiva quella costellazione di rappresentazioni, collegate a una tonalità emotiva, in grado di perturbare la coscienza.

Questo concetto permette di descrivere non solo la patologia, ma anche la normalità. Anche l’Io è un complesso, ovvero:

un complesso di rappresentazioni che per me costituisce il centro del campo della mia coscienza e che mi sembra possedere un alto grado di continuità e di identità con se stesso

C.G. Jung, Tipi psicologici, 1921, p. 467

I tipi psicologici

La terminologia – introversione ed estroversione – è in relazione con la mia concezione energetica dei fenomeni psichici. 

C.G. Jung, Psicogenesi delle malattie mentali, Opere vol. III, 2015

Parliamo di estroversione in tutti i casi nei quali l’individuo volge tutto il suo interesse al mondo esterno, all’oggetto, e a questo attribuisce un’importanza e un valore eccezionali. Quando il mondo oggettivo cala in certo modo nell’ombra e desta scarsa considerazione, mentre l’uomo sta al centro del suo proprio interesse e ai suoi occhi appare per così dire quale unico oggetto (dunque nel caso opposto), si ha introversione. Il fenomeno cui Freud dà il nome di ‘traslazione’ e nel corso del quale l’isterico proietta nell’oggetto illusioni e valutazioni soggettive è chiamato da me estroversione regressiva. Per introversione regressiva io intendo il fenomeno opposto così come si presenta nella demenza precoce nella quale tali idee fantastiche riguardano il soggetto.

C.G. Jung, Sulla questione dei tipi psicologici, 1913

Jung parte dai due opposti fondamentali introdotti da Nietzsche: apollineo e dionisiaco (o anche gli archetipi Apollo e Dionisio).

L’impulso apollineo genera lo stato paragonato al sogno, il dionisiaco quello paragonato all’ebbrezza. Per “sogno” Nietzsche, come egli stesso afferma, intende essenzialmente la “visione interiore” […].

C.G. Jung, Tipi psicologici, 1921

Quindi, l’apollineo segue la strada verso l’individuazione. Invece, nel dionisiaco si scatena la dynamis animalesca e divina. Jung usa il dionisiaco per spiegare l’espansione, o meglio il tipo estroverso:

Il dionisiaco è quindi paragonabile all’ebbrezza che dissolve l’elemento individuale negli istinti e nei contenuti collettivi, alla frantumazione, che il mondo opera, dell’Io chiuso. Per questo nel dionisiaco l’uomo ritrova l’unità con l’uomo.

“” F. Nietzsche, Opere, Vol. 1

C.G. Jung, Tipi psicologici, 1921

L’uomo non è più artista, si è trasformato egli stesso in un’opera d’arte: in lui si esprime la potenza artistica di tutta la natura… nel brivido dell’ebbrezza.

F. Nietzsche, Opere, Vol. 1

Invece, spiega il tipo introverso come l’orientamento dell’apollineo verso la ricerca della bellezza nelle immagini interiori, «contemplazione verso l’interno, verso il mondo di sogno delle idee eterne».

Ora non andrò oltre nella trattazione dei tipi, che saranno oggetto di un intero articolo.

L’inconscio e le sue figure

L’inconscio è inteso come progetto di esistenza, l’espressione di un “possibile” futuro, e non come semplice luogo del rimosso.

Definisco “ipotetici” i processi inconsci perché l’inconscio per definizione non è accessibile all’osservazione diretta, ma può essere soltanto “inferito”.

C.G. Jung, Pratica della psicoterapia, 1966, in Opere, Vol. 16, 2015

Infatti, secondo Jung esistono degli approcci metaforici o figure con cui possiamo rappresentarlo. Alcune di queste figure sono l’Anima e l’Animus. L’Anima, funzione mediatrice tra la coscienza e l’inconscio (Concato, 2006), si riferisce alle caratteristiche interiori dell’uomo non riscontrabili nel suo aspetto esteriore (che Jung chiama «persona»), in particolare alla femminilità inconscia nell’uomo opposta alla sua virilità conscia. Inoltre, l’Anima può «personificarsi nei sogni in forma mitica rivelando la struttura archetipica di base» (Galimberti, 1992).

L’Animus indica gli elementi maschili interiori, inconsci, nella donna. Inoltre, l’Animus unisce al «mondo dello spirito», ma quando è troppo invasivo, può rendere la donna aggressiva e dominatrice.

Un’altra figura, è l’ombra:

La parte negativa della personalità, la somma cioè delle qualità svantaggiose che sono tenute possibilmente nascoste e anche la somme delle funzioni difettosamente sviluppate e dei contenuti dell’inconscio personale.

C.G. Jung, Psicologia dell’inconscio, in Opere, vol. VII, 1983

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L’inconscio collettivo

Jung distingue l’inconscio collettivo da quello personale, ovvero l’inconscio che non esiste in virtù dell’esperienza personale, non un frutto di una acquisizione personale. I contenuti dell’inconscio collettivo non sono mai stati dimenticati perché non sono mai stati portati alla coscienza, quindi non sono mai stati vissuti e non possono essere stati mai pensati.

«L’inconscio personale consiste soprattutto in “complessi”; il contenuto dell’inconscio collettivo, invece, è formato essenzialmente da “archetipi”. Il concetto di archetipo, che è un indispensabile correlato dell’idea di inconscio collettivo, indica l’esistenza nella psiche di forme determinate che sembrano essere presenti sempre e dovunque. La ricerca mitologica li chiama “motivi”; nella psicologia dei primitivi esse corrispondono al concetto di représentations collectives di Lévy-Bruhl; nel campo della religione comparata sono state definite da Hubert e Mauss “categorie dell’immaginazione”.» (C.G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo)

La capacità dell’inconscio di generare immagini, analogie e simboli, come intuizioni inconsce e non arbitrarie rispetto alle produzioni della persona, aiutano l’emergere di finalità che si stanno escludendo dal proprio campo di coscienza.

L’inconscio si esprime attraverso la fantasia, al contrario di quanto affermava Freud:

[…] l’uomo felice non fantastica mai; solo l’insoddisfatto lo fa. Sono desideri insoddisfatti le forze motrici delle fantasie, e ogni singola fantasia è un appagamento di desiderio, una correzione della realtà che ci lascia insoddisfatti

S. Freud, Il poeta e la fantasia, 1907, p. 376

Gli archetipi

La presenza del concetto di archetipo si ritrova già a partire dagli antichi scritti tardo-ellenici e trova un vasto impiego nella psicologia analitica di Jung (Galimberti, 1992).

gli archetipi rappresentano probabilmente situazioni di vita tipizzate.

C.G. Jung, La dinamica dell’inconscio in Opere Vol. 8, 2015

Jung distingue due versioni del concetto di archetipo, una fenomelogica e una mitologica.

Gli archetipi, nella versione fenomenologica, sono intesi come tipi arcaici o primigeni, «immagini universali presenti fin dai tempi remoti» che organizzano l’esperienza (C.G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, 1969).

Il pulcino non ha imparato il modo con cui uscirà dall’uovo: esso lo possiede a priori.

C.G. Jung, Simboli della trasformazione in Opere vol. 5, 1970, p. 322

L’altra versione proposta da Jung è quella mitologica, ovvero l’archetipo è espresso dal suo rapporto con il mito, le dottrine esoteriche e la fiaba.

[…] i miti sono in primo luogo manifestazioni psichiche che rivelano l’essenza dell’anima.

C.G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, 1969

In questa concezione gli archetipi divengono istinti forniti di un’energia specifica che, se trascurata, può produrre un’inflazione dell’Io (Galimberti, 1991). Quindi, se gli istinti sono «forme tipiche dell’agire», gli archetipi sono «forme tipiche della comprensione» (C.G. Jung, Istinto e inconscio, 1919).

Come ogni uomo possiede degli istinti, così possiede anche le immagini originarie.

C.G. Jung, Istinto e inconscio, 1919

L’immagine archetipica, che va distinta dall’archetipo in quanto ne è la rappresentazione, mentre l’archetipo per definizione rimane inconscio, può essere quindi considerata come un’«autoraffigurazione dell’istinto», cioè, in altri termini, è la raffigurazione di una forza, di una potenza psichica inconscia e della sua capacità di «afferrare» (ergreifen) la coscienza e quindi gli atteggiamenti e le conoscenze dell’individuo, costituendone il presupposto inconscio. (G. Concato, Manuale di psicologia dinamica, 2006).

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Il simbolo

Prima di introdurre il concetto di simbolo in psicologia analitica, bisogna considerare un’importante premessa:

Che una cosa sia un simbolo o no dipende anzitutto dall’atteggiamento della coscienza che osserva

C.G. Jung, Tipi psicologici, 1921

Jung distingue il simbolo dal segno. Significato simbolico e significato semeiotico sono concetti completamente diversi. Ogni concezione che definisce l’espressione simbolica per richiamare, per brevità o per analogia, qualcosa di noto, è semeiotica, mentre quando viene definita come la migliore formulazione possibile di una cosa sconosciuta, è simbolica.

La croce, la ruota, la stella ecc, possono essere usati ad esempio per designare francobolli, bandiere ecc, e in questo caso rappresentano segni, ossia indicano qualche cosa; in un altro caso, a seconda del contesto in cui si trovano e di ciò che significano per l’individuo, possono essere un simbolo.

Jacobi, J., Il simbolo, Rivista di psicologia analitica, vol. II, n. 2, 1971

Inoltre, Jung aggiunge che il simbolo è “vivo” fin quando è espressione di qualcosa che non si può caratterizzare in modo migliore. Quando, invece, porta alla luce il suo significato si “estingue” o “muore” (diventando un segno convenzionale e mantenendo il valore storico).

Il simbolo rappresenta dunque, per Jung, la più alta espressione del potere creativo dell’inconscio, cioè la capacità che questo ha, nella sua attività di compensazione, di produrre nuovi orizzonti di senso e nuove prospettive di sviluppo della personalità.

G. Concato, Manuale di psicologia dinamica, p. 126

La psiche, grazie al suo potere creativo, sintetizza nel simbolo coppie di opposti (contenuti consci e inconsci). Questo processo creativo è chiamato da Jung, funzione trascendente. Infine, il simbolo può essere inteso come trasformatore di energia.

Il Sé e l’individuazione

Il è l’istanza che orienta verso la trasformazione e lo sviluppo individuale, è «l’archetipo per eccellenza». È l’estensione della coscienza e dell’inconscio. Se l’Io è il centro della coscienza, il Sé è inteso come l’intimo centro della personalità. Inoltre,

il Sé ha un senso funzionale solo se può agire come “compensazione” di una coscienza dell’Io.

C.G. Jung, La dinamica dell’inconscio, in Opere, vol. VIII, 2015

Il Sé è un concetto strettamente legato al processo di individuazione. Infatti, la trasformazione e lo sviluppo dell’individuo dipende da quanto l’Io è disposto ad accettare i cambi di rotta del Sé.

Con il termine individuazione si intende quel lento e quasi impercettibile processo di sviluppo psichico che conduce, nel corso della vita, verso l’unificazione delle varie istanze della personalità.

Il Sé è, come tutti gli altri archetipi, inconscio ma può manifestarsi, se ne ha la possibilità, attraverso la comparsa di immagini archetipiche, cioè simboliche, nei sogni o nelle fantasie.

La terapia junghiana invita il paziente a “vivere” i simboli, cioè ad attendere che con il passare del tempo e lo svolgersi degli eventi, l’adeguata comprensione dei significati si realizzi (Jung, Energia psichica, Opere, vol. 8, 1976 in G. Concato, 2006).

L’individuazione in psicologia analitica si sostituisce al concetto di guarigione (Galimberti, 1992).

Bibliografia:

  • Carotenuto A., Breve storia della psicoanalisi, 1999
  • Concato, G., Manuale di psicologia dinamica, 2006
  • Galimberti, U., Dizionario di psicologia, Utet, 1992
  • Jung, C.G., Opere, Bollati Boringhieri, 1983, 2015
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