In questo articolo parlerò della filofobia, la paura di amare o di instaurare relazioni affettive durature. In particolare, mi soffermerò su alcune interpretazioni del fenomeno secondo la psicologia del profondo, a partire Sigmund Freud, passando per Karen Horney, fino ad arrivare alle più recenti riflessioni di Guy Corneau (2004) e Romina Tavormina (2014).

Hai mai sentito parlare della tragedia del bravo ragazzo o della sindrome del cappio al collo? Oppure della ragazza di vetro? Se la risposta è NO, ti consiglio vivamente di continuare a leggere questo articolo! Buona lettura!

Temere l’amore è temere la vita, e chi ha paura della vita è già morto per tre quarti. 

Bertrand Russel

Lettura psicoanalitica del fenomeno

Diversi autori, da Freud a Bowlby, hanno analizzato il fenomeno dei legami affettivi duraturi. Infatti, la maggior parte di loro concordano con il fatto che la fonte principale di questi problemi sia attribuibile alla relazione con i propri genitori durante l’infanzia (Tavormina, 2014).

Perché proprio durante l’infanzia?

In questo periodo sviluppiamo il primo legame di attaccamento con una figura di riferimento, una madre o chiunque altro si occupi di noi (caregiver). Questa prima modalità di attaccamento la useremo come modello per instaurare le relazioni successive.

Se vuoi approfondire questo argomento ti consiglio di CLICCARE QUI per leggere l’articolo sulla teoria dell’attaccamento di John Bowlby.

A seconda dei casi, può accadere di aver sviluppato un attaccamento di tipo insicuro con la figura di riferimento e questo si può tradurre, con molta probabilità, in legami fragili e ambivalenti nella vita adulta.

La genesi

Gli ostacoli al normale sviluppo delle relazioni oggettuali del bambino possono essere il primo segnale dell’incapacità di instaurare sane relazioni d’amore durature e possono essere i precursori di una futura filofobia.  

S. Freud, Sull’universale degradazione della vita amorosa (1912), in La vita sessuale, Boringhieri, Torino, 1970

Lo studio condotto da Romina Tavormina, invece, pone l’enfasi su un periodo cruciale, l’adolescenza. La genesi di questa fobia può essere individuata a partire dall’attaccamento morboso ai genitori durante l’adolescenza.

Riprendendo le fasi dello sviluppo psicosessuale di Sigmund Freud, l’adolescente è guidato da una forte spinta all’individuazione e attribuisce un nuovo valore alla gratificazione genitale. Purtroppo, nella filofobia, il complesso edipico non viene rielaborato verso nuove mete sessuali esterne alla famiglia.

Una prima interpretazione di S. Freud

Qualsiasi partner verrà percepito come una possibile relazione incestuosa. Infatti, gli impulsi sessuali nei confronti del partner non sono accettati per via della sensazione di “incesto”.

In che modo si ama con il filtro della filofobia? Tendenzialmente, queste persone preferiscono amare coloro che non desiderano sessualmente.

In alternativa, un altro scenario è quello di preferire un partner impossibile da conquistare e fortemente idealizzato. In questo modo, si raggiunge un buon compromesso perché non si chiuderà mai il “ciclo”, la sessualità e l’amore restano sempre separati.

L’interpretazione di Karen Horney

Karen Horney (1885 – 1952) interpretò il fenomeno come il fallimento nel superare il complesso di Edipo. Da un punto di vista emotivo, la Horney ipotizzava una possibile carenza affettiva durante l’infanzia. In questo modo, sarà difficile amare in età adulta.

Gli esiti della filofobia sono svariati e non si limitano all’esclusione di una relazione stabile e duratura. Infatti, c’è chi ne è inibito, chi nega il problema oppure chi ne è consapevole e si nutre ossessivamente di relazioni affettive, chi spera di trovare l’amore perduto attraverso numerosi partner sessuali.

La filofobia maschile

Lo psicoanalista junghiano Guy Corneau (1951 – 2017), basandosi sulle osservazioni dei suoi pazienti, riteneva che le persone affette da filofobia possono essere collocate in diverse categorie. Una situazione tipica ricorrente nell’uomo è la presenza di una madre molto apprensiva e un padre assente ed emotivamente distaccato. Una madre iperprotettiva crea la base per un legame di dipendenza e passività. La crescita avviene in fusione/confusione con la madre, una trappola nel complesso materno.

In questo modo, la madre sostituisce il legame col marito assente creando un “matrimonio simbolico” con il proprio figlio. Questo compromette l’esito del complesso di Edipo, a tal punto da non lasciare andare la madre all’unione col padre e non riuscire a sostituirla con un’altra donna.

La relazione adulta con un partner femminile sarà spesso “confusa” con una relazione con la propria madre. Infatti, la scissione fra amore e sesso è obbligata: si preferiranno relazioni sessuali con altre donne, ma l’amore non è contemplato poiché è vissuto come un atto di tradimento verso la madre.

Uno scenario possibile è quello in cui le relazioni affettive sono instaurate con donne dominanti in cui non c’è spazio per la propria individualità.

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La tragedia del bravo ragazzo: una lettura analitica

Un altro importante scenario è quello in cui si risulta totalmente sopraffatti dalla madre. La personalità di questi uomini non trova espressione e l’incapacità di amare è alimentata dalla paura del potere femminile.

Lo sforzo è quello di aggrapparsi con tutte le forze a un Sé isolato che non unifica le varie istanze della personalità e non guida verso l’individuazione.

Ogni vita è in fin dei conti la realizzazione di un tutto, cioè di un Sé, e questa è la ragione per la quale questa realizzazione può venir chiamata anche individuazione.

C.G. Jung, Psicologia e alchimia, 1968

Il gesto diventa estremo quando si incontra il partner femminile. Infatti, per proteggersi dall’influsso materno, proietta sul partner l’immagine della Madre Drago, la divoratrice per eccellenza, una delle rappresentazioni dell’archetipo della Grande Madre nella sua dimensione terribile (o anche archetipo della Madre Terribile).

In questo modo, la strada più semplice per affrontare la madre terribile è proprio nella relazione con il partner che, all’occorrenza, diventerà facilmente un capro espiatorio.

La Madre Drago è il simbolo della madre eternamente bisognosa dei suoi figli. Infatti, non li lascia “fuggire” per garantire la sua sopravvivenza psichica.

Per quanto strano possa sembrare, in mitologia il drago è la madre. È un motivo ricorrente in tutto il mondo, e il mostro è chiamato madre-drago. La madre drago mangia la sua creatura, la divora dopo averla messa al mondo. La “terribile madre”, come viene anche chiamata, aspetta con le fauci spalancate sui mari occidentali, e quando un uomo le si avvicina, le fauci si chiudono su di lui ed è spacciato. Questa figura mostruosa è la madre sarcofaga, la mangiatrice di carne e, sotto un altro aspetto, Matuta, la madre dei morti, la dea della morte.

C.G. Jung, Opere, Psicoanalisi e psicologia analitica, vol. 15, 2015

Il figlio, può rappresentare una chiara estensione della madre in quanto ne è letteralmente inghiottito. Diviene, così, dipendente dall’influsso materno, un “bravo ragazzo”.

Quando avviene la tragedia?

La tragedia è la rottura degli equilibri. Il bravo ragazzo ha comunque una via d’uscita: la riconquista del territorio personale perduto, la “rinascita” dopo un lungo combattimento.

Il mostro può essere un drago che vive in una grotta o un mostro del profondo. Qualche volta l’eroe uccide il mostro dopo un lungo combattimento; qualche volta è divorato da un immenso serpente di mare e dopo un periodo nel ventre del mostro riesce ad uscire con una specie di auto parto cesareo, o fa vomitare il mostro con un rigurgito di “rinascita”. Il fallimento nel combattere col mostro vuol dire fallimento di liberarsi dalla madre: l’eroe langue nel suo ventre per sempre, ingerito, inghiottito, “assorbito” e la damigella (l’Anima) non si libera mai dalle grinfie del mostro. 

Anthony Stevens, Archetype: A natural history of the self, 1982

La sindrome del cappio al collo

Un altro scenario ipotetico prevede la situazione in cui NON si è totalmente sopraffatti dal complesso materno, una situazione più mitigata rispetto alla precedente.

L’uomo filofobico in quest’ottica ha paura di impegnarsi in una relazione stabile con un partner femminile per evitare di sentirsi “soffocato”. Questa sensazione, derivante dal sacrificio dell’indipendenza, è stata probabilmente sperimentata durante infanzia per amore della propria madre.

Una relazione di coppia sarà possibile solo quando il partner maschile avrà trovato la sua autonomia. Fino a quel momento, prevarrà anche la paura di una profonda relazione intima con l’Altro.

Da un punto di vista sessuale, è possibile immaginare due possibili esiti, ovvero problemi di impotenza oppure la sindrome del Don Giovanni, la continua ricerca di partner sessuali.

Tuttavia, un filofobico può sviluppare degli stratagemmi per vincere queste paure e vivere un rapporto di coppia. Il primo è dare priorità ai bisogni di unione ed escludere i bisogni di separazione, quest’ultimi restano comunque importanti nella relazione. Invece, quando la sensazione di sentirsi soffocati deriva dall’affetto del partner, un altro stratagemma è quello di dare alla luce un bambino, in modo che il partner sia più concentrato sul nascituro e il filofobico potrà riconquistare la “libertà”. L’ultimo stratagemma è quello di instaurare un rapporto fugace, basato maggiormente sui bisogni di separazione (è il caso di relazioni di impossibili, rapporti basati sull’infedeltà di uno dei due partner).

La filofobia femminile

Secondo Guy Corneau (2004), bisogna studiare la filofobia femminile in un’ottica diversa dalla concezione maschile del fenomeno.

Come nella filofobia maschile, è molto frequente la presenza di una madre intrusiva, onnipresente, apprensiva, e un padre emotivamente assente. Il padre, una figura fondamentale per il superamento del complesso di Elettra (l’equivalente femminile del complesso di Edipo), rappresenta la figura essenziale per la successiva transizione a un’altra figura da amare.

Quando il complesso non è stato superato, spesso il bisogno di un marito può coincidere con il bisogno di un padre che la protegga. In questo caso, la sessualità sarà vissuta con il senso di colpa, perché rappresenta un tabù del complesso edipico.

Ma quale relazione d’amore si potrebbe instaurare? Un amore “latente”, lo stesso vissuto durante l’infanzia nei confronti della figura paterna, ovvero un amore che non si può vivere. Amare senza vivere l’amore. Ecco il tipo di amore ricercato nell’altro.

La ricerca del Principe Azzurro

Idealizzare il padre, ma non poter vivere questo amore, può alimentare la fantasia che un giorno arriverà il principe Azzurro, un uomo-padre, che la riconoscerà finalmente come donna e romperà il lungo silenzio.

Sfortunatamente, queste fantasie possono solo imprigionare e distogliere il pensiero da una possibile, e reale, relazione d’amore. Anche per la filofobia femminile esistono due principali scenari sul futuro sviluppo femminile: le eterne adolescenti e le Amazzoni, donne guerriero.

Le eterne adolescenti

Sono le donne prigioniere del bisogno di piacere agli altri, quelle che trovano rifugio nel loro mondo interiore e non permettono alla personalità di realizzarsi. Sacrificano a caro prezzo la propria identità pur di piacere al partner o essere accettate, ma plasmano una nuova identità sulla base dell’immagine che il partner proietta su di loro.

L’eterna adolescente si rifiuta di crescere e lascia agli altri il compito di scegliere il proprio destino. Invece, di agire secondo i propri interessi, si adatta ai cambiamenti richiesti dal partner e trova rifugio nella fantasia quando una situazione diventa difficile da affrontare. Esistono quattro tipi di eterne adolescenti: la bambola adorabile, la ragazza di vetro, la seduttrice e l’emarginata.

La bambola adorabile

Appare orgogliosa, altezzosa e sicura di sé. Spesso ha accanto un uomo di successo a cui “obbedisce” a ogni sua richiesta. Può avere difficoltà a distinguere rancore, risentimento, e rabbia. Infatti, la rabbia alimenta le continue lamentele verso il partner, nonostante ciò continua a essere passiva e dipendente. L’unica arma che ha per prendere il sopravvento sul partner è la manipolazione attraverso la dolcezza e la seduzione. Il suo modo di essere riflette la ferita inflitta dal padre, il quale amava sua figlia solo per il fascino e la bellezza, e non per i suoi talenti.

La ragazza di vetro

È colei che reagisce alla ferita d’infanzia rifugiandosi in attività solitarie (es. la lettura) per paura di “rompersi”, sgretolarsi, a causa del suo modo di essere fragile e ipersensibile.

La seduttrice

La tendenza è di vivere esclusivamente il presente, appare volubile e i suoi progetti di vita sono mutevoli e imprevedibili. Vive alla ricerca di una vita libera da ogni costrizione o responsabilità. Il suo modo di essere ribelle le impedisce di instaurare relazioni stabili e durature.

L’emarginata

È una donna che, spesso, si identifica con un padre rifiutato dalla società di cui si vergogna. Può emergere un carattere distruttivo che rasenta il masochismo. Può essere convinta di non valere nulla e per questo motivo va alla ricerca di un uomo che rappresenti “tutto” per lei. Può essere presente una storia di violenze subite dal padre o dal patrigno. Questo è uno dei motivi per cui non ama o rispetta se stessa.

Le Amazzoni, donne guerriere

Mentre le eterne adolescenti soffrono della loro stessa passività, le Amazzoni si presentano iperattive e con una scarsa apertura mentale, quindi una scarsa ricettività nel rapporto con l’Altro. Probabilmente, sono state cresciute da un padre tiranno, con il quale si identificano, e si impongono agli altri con la stessa personalità dispotica. Si presentano ferme e rigide nelle loro convinzioni e arrivano a mutilare la loro femminilità integrando aspetti maschili nella propria personalità. Sono principalmente guidate da un forte temperamento maschile e si concedono difficilmente a legami emotivi. Le quattro tipologie di Amazzoni sono: la superstar, la figlia diligente, la donna martire e la regina guerriera.

La superstar

La prima tipologia di Amazzone è la superstar, una donna spinta da un forte bisogno di successo. È fredda e cinica, appare forte, ma vive il mondo in bianco e nero poiché ha perso il contatto con le sue emozioni e sperimenta una forte paura di essere respinta o di fallire. In molti casi, è stato presente un padre che l’ha trattata come un uomo, non ha rispettato la sua femminilità.

La figlia diligente

È una donna che ha vissuto in una famiglia severa e molto religiosa. Ha perso qualsiasi senso di spontaneità e originalità a causa dell’educazione rigida e del forte senso del dovere.

La donna martire

Completamente devota all’autosacrificio. È importante per questa donna sentire la rabbia per il dolore che le apporta questo suo sacrificarsi e scoprire che, dietro tutto questo sacrificio c’è una bambina abbandonata che chiede pietà agli altri.

La regina guerriera

Il suo motto è che la miglior difesa contro gli uomini è “non amare”.

Ciò che unisce le Amazzoni è il rifiuto di essere controllate o considerano inaccettabile qualsiasi bisogni di dipendenza. Considerano qualsiasi gesto verso l’Altro (maschile) come una forma di debolezza. Spesso si tratta di donne che sono state educate prevalentemente da una madre che professava la propria indipendenza e il non poter fare affidamento su un uomo. Quindi, quando si trovano a dover iniziare una relazione d’amore, possono entrare in conflitto con questo ideale materno e provare colpa verso l’amore.

Conclusioni

Molto è stato detto sul ruolo della madre, ma bisogna ricordare l’importante ruolo del padre emotivamente distante, il quale non facilita la separazione dalla madre e rende il bambino prigioniero della famiglia di origine.

Chi soffre di filofobia è incapace di amare, anche se afferma il contrario. Cerca di ricompensare le carenze affettive dell’infanzia solo all’interno della propria famiglia di origine. La genesi della paura di amare si ritrova nella relazione con i propri genitori durante l’infanzia. Nella storia familiare di un filofobico, emerge, dalla letteratura, una madre ansiosa e depressa incapace di instaurare una relazione empatica con i propri figli. In questo modo non aiuta i figli a padroneggiare le emozioni forti e li rende dipendenti e insicuri. 

Romina Tavormina, 2014

Quando si parla di filofobia, si può correre il rischio di essere brevi e affrettati affermando che si tratta di una semplice paura di amare. Perché la Tavormina giunge a questa conclusione nella sua ricerca? In realtà, non credo si tratti di una conclusione, ma di un punto di partenza per l’analisi di un fenomeno ben più complesso che veste sempre diverse “maschere”.

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