C’è sempre una novità più nuova che fa invecchiare la precedente. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma.
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Resilienza: precauzioni per l’uso
Da qualche anno ormai il termine “resilienza” è entrato nella psicologia e nel linguaggio comune, ma pochi sanno che contiene un inganno e può peggiorare la sofferenza delle persone. Come mai? Una breve analisi.
Che cos’è la resilienza?
Nasce in ambito tecnico, ed in particolare metallurgico, ed è la capacità di un materiale di resistere a forze dinamiche.
In parole povere è la capacità, soprattutto di un metallo, di sopportare gli urti senza rompersi. Più il metallo è resiliente e più può essere sollecitato senza subire danni. Nel nostro campo, quello psicologico, assume il significato del rialzarsi dopo un evento difficile o traumatico, di autoripararsi e di riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante la situazione.
Fin qui nulla di male, chi non vorrebbe essere resiliente? Chi non desidera possedere una qualità così utile?
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L’inganno nascosto
Il problema viene fuori quando caliamo realmente questo concetto sopra e dentro le nostre teste di comuni mortali. Il rischio è quello di fare della resilienza un antidoto difensivo al dolore ed alla sofferenza. Soprattutto nel campo clinico l’uso e la promozione del verbo della resilienza può non solo essere poco utile, ma arrivare ad esacerbare la ansie, il panico e le depressioni. Siamo umani e mortali, e non pezzi di metallo. Siamo complessi e conteniamo in noi dolore e sofferenza. Questi hanno permesso alla nostra specie di evolvere ed arrivare sino ad oggi (con tutte le pecche del caso). L’uso del concetto di resilienza tende facilmente a diventare una panacea contro il dolore mentale, e ne impedisce la sua elaborazione.
Secondo una certa idea di resilienza infatti dobbiamo riorganizzarci subito, cercare le risorse per rimetterci in piedi, ripartire e trovare del positivo nelle disgrazie che ci sono successe. Chiaro sulla carta, ma poco rispettoso della realtà della vita. Provate a dire a chi ha perso un figlio di essere resiliente, o anche solo a chi sta cercando lavoro da mesi e mesi senza risultato: “devi essere resiliente! Riorganizzati! C’è del positivo nella tua situazione.”.
Il termine resilienza sembra nascondere in sé, in modo molto elegante e difficile da svelare, i dettami dell’ideologia dominante contemporanea: l’importanza della prestazione, dell’essere sempre sul pezzo, l’inutilità o la paura del pensare alla morte e al dolore e una sorta di odio verso la stasi, che è l’ingrediente iniziale indispensabile nel pensiero creativo e riparativo: non si riparte ne si guarisce una ferita senza fermarsi.
Lungi da me l’idea di scrivere un’apologia del dolore, ma il dolore e la psiche hanno tempi propri, così come la ricostruzione di una zona ferita dentro di noi. Sono tempi e modalità poco contemplati nel termine resilienza e nel relativo pensiero economico e sociale contemporaneo.
Un paio di esempi
- Il lutto: quanti sono i romanzi e le tragedie che raccontano di dolore, inquietudine e vagabondaggi durati anche anni prima di superare un lutto? Quanto tempo Penelope attende Ulisse prima di mettersi l’anima in pace ed essere resiliente? Bene, il DSM V indica come 12 mesi il limite tra un lutto normale ed un lutto patologico.
- La nostalgia: sino a pochi anni fa esisteva la diagnosi di “nostalgia”. Era una malattia conosciuta e definita. E si moriva di nostalgia. Fino alla prima guerra mondiale alcuni soldati morivano di nostalgia di casa. Questo termine appare intorno al 600 negli scritti di un medico di nome Johannes Hofer: “Si imposero alla mia mente i casi di certi giovani a tal punto sofferenti che, se non fossero stati riportati in patria, sarebbero spirati in terra straniera, vinti dalla febbre o dalla consunzione” . Sembra incredibile al giorno d’oggi. Chi muore di nostalgia?
Questi sono i tempi ed i modi del dolore, che ci abitano e permangono tutt’oggi. Qualcuno potrebbe obiettare che dall’antichità ad oggi la nostra mente è cambiata, evoluta, ma ragionando in termini di generazione e mutamenti biologici questi sono tempi troppo brevi.
Se consideriamo infatti che ogni generazione prende circa 25 anni avremo all’incirca 4 generazioni ogni secolo. Se volessimo arrivare alla nascita di Cristo sedendoci a tavola con un membro per ogni generazione avremmo circa 80 persone alla nostra tavola: chi vestito da romano, chi da cristiano medioevale, chi con abiti rinascimentali, chi ottocentesco e cosi via.
Davvero pensiamo che in 80 passaggi la nostra mente possa aver modificato il modo di sentire ed affrontare il dolore così come vorremmo intenderlo oggi e come la resilienza richiede? Siamo semplicemente in un mondo veloce e prestazionale con delle menti lente e giustamente confuse. Questo è uno dei fattori alla base dell’aumento dei disturbi depressivi nella nostra epoca. Ruotano spesso intorno alla domanda: “Ce la posso fare?”.
Resilienza e sofferenza
Il mio discorso vale soprattutto per chi si occupa di sofferenza, psicologi, terapeuti, psichiatri: dobbiamo permettere alle persone che chiedono aiuto di sostare nella sofferenza, di giacervi quando e quanto necessario, di prendersi il giusto tempo per comprenderla, per frequentarla, per passarvi attraverso e trarne qualcosa. Dovremmo avere sempre chiaro in mente che i tempi interiori ed i tempi del mondo contemporaneo possono non coincidere. Il processo di cura e guarigione è particolare, ed ha tempi e modi assolutamente diversi in ogni persona. Una grande sofferenza sconvolge e sconquassa e la ricostruzione non è mai immediata. Bisogna fissare per un po’ il terreno dopo essere caduti, per pensare, per comprendere come si sta e cosa è successo. Non è possibile tenere insieme nella mente il dolore e la sua soluzione contemporaneamente.
Ciò non significa crogiolarsi o andare gratuitamente alla ricerca del dolore, ma avere sempre ben chiaro che abbiamo due sistemi con cui confrontarci costantemente: quello economico e sociale esterno, che propone ed allunga le mani sui modi del nostro lavoro clinico e quello del singolo individuo con i suoi mondi interiori. La guarigione è un processo che poco ha a che fare con il rimettersi immediatamente in sesto, pronti, scattanti e performanti.
Scrivono Miguel Benasayag e Gerard Schmith:
La tradizione della psichiatria fenomenologica descrive la depressione come un’esperienza di vita in cui uno sente di non avere “più tempo”, di avere il tempo contato e di non avere più spazio fino al punto che, sentendosi braccato, incorre in un autentico stallo esistenziale.
Per cui oggi prendiamoci il giusto tempo, domani saremo resilienti.
Consigli di lettura e bibliografia:
- Miguel Benasayag, Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, 2013, Feltrinelli, Milano.
- Roberto Beneduce, Frontiere dell’identità e della memoria. Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo creolo, 2004, Franco Angeli, Milano.