In questo articolo il Dott. Gabriele Ramonda, si soffermerà su due emozioni, Iktsuarpok e Hiraeth. Perché definirle “strane”? Probabilmente perché non le abbiamo mai sentite, ma descrivono un modo di percepire e di vivere le emozioni che riscoprirai familiare.
Emozioni lontane
Esistono in noi alcune emozioni principali ed infinite combinazioni emotive. Come per i colori: ci sono i quattro colori primari ed una miriade di loro combinazioni.
Le emozioni primarie sono quelle che troviamo in tutte le popolazioni del mondo, che non risentono della cultura e dell’educazione. Plutnick, docente della University of South Florida, ne individua otto, divise in quattro coppie di opposti:
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gioia e dolore
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rabbia e paura
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accettazione e disgusto
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sorpresa e attesa
Altri studiosi propongono differenti suddivisioni. Manca, ad esempio, in questa lista la tristezza, che così spesso incontriamo dentro e fuori gli studi degli psicologi e che sembra bandita dalla società, come se fosse un’emozione di cui vergognarsi.
Vi sono poi emozioni che hanno nomi strani, appartenenti a culture diverse dalla nostra. Hanno nomi particolarissimi, ma se le osseviamo bene potremo scoprire che esistono anche in noi, nella poesia e nella letterature.
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Hiraeth
Hiraeth è un emozione che indica il legame con il nostro paese natale. E’ un tipo di legame particolare, che si nutre soprattutto dell’ambiente naturale: le colline, i corsi d’acqua, i boschi, le distese erbose, la luce e gli odori della propria terra.
Ha una declinazione diversa dalla semplice nostalgia, contiene in sé una vena di paura e di timore per la sopravvivenza di quei luoghi. Come se insieme alla voglia di rivederli vi fosse il timore che svanissero, nella realtà o nel ricordo fragile che portiamo dentro; oppure vi fosse la triste sensazione di non ritrovarli uguali una volta tornati a casa.
E’ una parola di origine anglosassone, legata ai paesaggi ed agli abitanti del Galles. Per lungo periodo occupati dagli inglesi, i gallesi hanno sviluppato questa parola che indica tra il profondo affetto provato per la propria terra e la paura di perderla dopo l’invasione inglese.
Sembra un’emozione a noi straniera, ma molti emigrati la sentono o l’hanno sentita ed alcuni poeti ne hanno scritto.
Penso in particolare a Cesare Pavese, con il suo viscerale legame con le colline e le vigne della Langa o a Pablo Neruda, con i suoi canti per il Cile.
Eccone un esempio:
Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto
se salivo con lui: dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro
lontano, di Torino. “Tu che abiti a Torino…”
mi ha detto “…ma hai ragione. La vita va vissuta
lontano dal paese: si profitta e si gode
e poi, quando si torna, come me, a quarant’anni,
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono”.
Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent’anni di idiomi e di oceani diversi
non gliel’hanno scalfito. E cammina per l’erta
con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,
usare ai contadini un poco stanchi.
(…)
Mio cugino non parla dei viaggi compiuti.
Dice asciutto che è stato in quel luogo e e in quell’altro
e pensa ai suoi motori.
(…)
Ma quando gli dico
ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora
sulle isole più belle della terra,
al ricordo sorride e risponde che il sole
si levava che il giorno era vecchio per loro.
C. Pavese, I mari del sud
Non vi sembra Hiraeth?
Iktsuarpok
Siamo qui nella lingua inuit, nelle terre eschimesi del freddo e del ghiaccio. Per gli inuit iktsuarpok è un’attesa intrisa di irrequietezza. Nasce dal loro scrutare l’orizzonte in attesa di vedere spuntare delle slitte.
Ha preso tutti noi in alcune situazioni: quelle volte in cui aspettiamo qualcuno e ci pare di sentirlo arrivare, di sentire il rumore della sua auto o dei suoi passi e oppure controlliamo continuamente dalla finestra senza riuscire a sederci o continuare a fare semplicemente quello che stavamo facendo. E’ la stessa emozione che provano gli innamorati, quando aggiornano continuamente la mail o la pagina Facebook in attesa di vedere il nuovo messaggio in arrivo.
Inutile dire che anche iktsuarpok è stata vissuta e raccontata da poeti e scrittori:
L’attesa è un incantesimo: io ho avuto l’ordine di non muovermi.
R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso
L’attesa di una telefonata si va intessendo di una rete di piccoli divieti, all’infinito, fino alla vergogna…
proibisco a me stesso di uscire dalla stanza, di andare al gabinetto, addirittura di telefonare (per non tenere occupato l’apparecchio):
per la stessa ragione io soffro se qualcuno mi telefona..
l’idea di dover uscire tra poco, correndo così il rischio di essere assente al momento dell’eventuale chiamata riconfortante (…), mi tormenta.
Tutti questi diversivi sono dei momenti perduti per l’attesa, delle impurità d’angoscia, poiché, nella sua purezza, l’angoscia dell’attesa esige che io me ne stia seduto in una poltrona con il telefono a portata di mano.. senza far niente.
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Letture consigliate e bibliografia
Tiffany Watt Smit, Atlante delle emozioni umane, Utet, Torino, 2015.
R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi Editore, Torino, 2014.
Cesare Pavese, Poesie, Einaudi Editore, Torino, 2014