Philip Zimbardo (New York, 23 marzo 1933), professore emerito di Psicologia presso l’Università di Stanford, è uno psicologo statunitense che conduce da sempre studi sull’origine del male. È noto per aver condotto uno dei più famosi esperimenti della storia della psicologia sociale, l’esperimento della prigione di Stanford. Per più di trent’anni ha condotto ricerche per spiegare come le persone buone possono arrivare a mettere in atto comportamenti antisociali, ovvero il cosiddetto Effetto Lucifero. La principale domanda a cui ha cercato di rispondere è:

“Cosa rende cattive le persone?”

L’errore fondamentale di attribuzione

«La tendenza a spiegare il nostro comportamento e quello delle altre persone unicamente in termini di tratti di personalità, sottostimando in tal modo la forza dell’influenza sociale.»[3]

Il punto di partenza è l’assunto secondo cui le persone tendono a spiegare i comportamenti altrui, in questo caso i comportamenti criminali, come il prodotto di una mente criminale o malata (fattori disposizionali o di personalità). Secondo quest’ottica, il senso comune spiegherebbe i comportamenti devianti come eccezionali, i comportamenti devianti sarebbero prediletti solo da coloro che scelgono di essere criminali: ecco l’attribuzione ingenua del senso comune.

La logica binaria: buoni e cattivi

L’assunto iniziale da cui parte Zimbardo può essere ben descritto da questo passo del romanzo Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hide di Robert Louis Stevenson:

«Fu pertanto la natura esigente delle mie aspirazioni, più che una particolare degradazione nell’errore a fare di me quello che ero, separando in me, con un solco ancora più profondo che nella maggior parte degli uomini, le due regioni del bene e del male, che dividono e compongono la natura duale dell’uomo.»[5]

Partire dalla netta separazione fra bene e male, ci fa cogliere un altro errore fondamentale, ovvero il male è percepito come interiore e immutabile:

«L’idea che un abisso invalicabile separi le persone buone da quelle cattive è consolante per almeno due ragioni. Anzitutto, crea una logica binaria, in cui il Male è essenzializzato. La maggior parte di noi percepisce il Male come un’entità, una qualità intrinseca di certe persone e non di altre. Alla fine, un cattivo seme dà cattivi frutti, come mostra il loro destino. Definiamo il male citando i tiranni malvagi della nostra epoca, quali Hitler, Stalin, PoI Pot, Idi Amin, Saddam Hussein e altri leader politici che hanno orchestrato assassini di massa. Dobbiamo anche riconoscere il male più comune, meno grave, compiuto da trafficanti di droga, stupratori, mercanti del sesso, truffatori di persone anziane, e da quanti distruggono la serenità dei nostri figli con il loro bullismo.»[2]

Lettura di approfondimento: P. Zimbardo, L’effetto Lucifero, 2007

La teoria della deindividuazione (Zimbardo, 1969)

La sua teoria si ritiene che l’anonimato, la responsabilità diffusa e l’ampiezza del gruppo favoriscono il processo di perdita identitaria e una minore preoccupazione per la valutazione sociale. Si riduce la consapevolezza del sé. L’assenza di controllo sociale e personale facilita la regressione del comportamento aprendo la strada a tendenze impulsive e irrazionali.

Sollevarsi da ogni responsabilità

La classica distinzione fra bene e male comporta di conseguenza che le persone buone avranno la tendenza a sollevarsi da ogni responsabilità:

«Sostenere che esiste una dicotomia Bene-Male assolve “le persone buone” dalla responsabilità. Le libera dal dover prendere anche soltanto in considerazione il loro possibile ruolo.»[2]

In questo modo, se il mondo va a rotoli, le persone buone non possono farci nulla…

La psicologia del male e l’effetto Lucifero

I preziosi lavori di Zimbardo hanno dato inizio a un vero e proprio filone di studi sulla psicologia del male. Le sue ricerche riprendono gli studi sul conformismo di Solomon Asch e sull’obbedienza all’autorità di Stanley Milgram. La psicologia del male vuole dimostrarci che esiste una sottile linea fra bene e male, ed è molto semplice passare da un versante all’altro indipendentemente se si è “buoni” o “cattivi”. Secondo Zimbardo questa linea si può spostare e anche attraversare. Questo significa che una persona può diventare buona o cattiva in base alla situazione, al contesto, al ruolo ricoperto e al potere conferito.

L’effetto Lucifero può essere introdotto partendo dall’opera dell’artista olandese Maurits Cornelis Escher (1898-1972) in cui è possibile osservare il concetto appena introdotto

M.C. Escher, Angel-Devil
M.C. Escher, Angel-Devil

Se vi concentrate sul bianco e lasciate il nero sullo sfondo, risulta un mondo pieno di angeli, al contrario, un mondo pieno di demoni. Di seguito verrano citati due esperimenti irripetibili, poiché oltre i confini morali e etici, ma di gran lunga significativi per la comprensione dei comportamenti antisociali.

L’esperimento sull’obbedienza all’autorità di Stanley Milgram

In questo esperimento venne studiata l’influenza sociale che una persona può esercitare su un’altra in base all’autorità che le viene riconosciuta dai membri del gruppo a cui appartiene. Lo scopo di questo esperimento era di spiegare fenomeni come il nazismo e la Shoah. Le persone furono reclutate, tramite un annuncio su un giornale locale in cui si ricercavano persone dai 20 ai 50 anni (non studenti universitari), per partecipare a un esperimento sulla memoria dietro il compenso di 5$. Successivamente furono divisi casualmente per ricoprire il ruolo di insegnante e quello di studente. Il compito era molto semplice, consisteva nel far apprendere delle risposte allo studente. Le risposte corrette venivano premiate, le risposte errate venivano punite con una scossa elettrica, finta, simulata dallo studente. Le scosse elettriche erano di intensità crescente e lo studente finiva per urlare in modo straziante all’aumentare degli errori. Quando la responsabilità era assunta totalmente dallo sperimentatore:

“Quasi il 90% delle persone portarono a termine l’esperimento incuranti delle urla strazianti dello studente.”

Il male in questo esperimento è visto come la disposizione a obbedire ciecamente all’autorità. Il potere e la responsabilità di una autorità individuale sono cruciali nell’innescare questo fenomeno.

Lettura di approfondimento: Ricerche e protagonisti della psicologia sociale

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L’esperimento della prigione di Stanford

Lo scopo di questo esperimento era di studiare quanto un sistema istituzionale è in grado di condizionare il comportamento di una persona. Philip Zimbardo e i suoi colleghi dell’Università di Stanford studiarono questo fenomeno simulando la vita carceraria. Grazie all’aiuto di Carlo Prescott, un ex detenuto, riprodussero una vera e propria prigione per assicurarsi un buon grado di realismo. Anche in questo caso, le persone (studenti universitari) furono reclutate dietro un compenso in denaro, 15$, e si scelsero prevalentemente i più “sani”, ovvero quelli che riportarono valori nella norma a un test di personalità. Le 24 persone furono assegnate casualmente al ruolo di guardia e di prigioniero.

«Fin all’inizio sapevamo di avere mele buone, ma ora li avrei messi in una brutta situazione.»[1]

L’esperimento fu così realistico che le persone che ricoprivano il ruolo di prigionieri vennero prelevati dalle loro abitazioni da una volante della polizia e portati nella “prigione” di Stanford. Una volta arrivati veniva chiesto, a ogni prigioniero, di consegnare i propri abiti e indossare una ridicola uniforme.

«Questi sono i prigionieri che saranno de-umanizzati. Diventeranno numeri. Qui ci sono le guardie con i simboli di potere e anonimato.»[1]

Questo creava una perfetta condizione di de-individuazione. Le guardie avevano carta bianca riguardo i metodi da adottare nei confronti dei prigionieri.

Dopo due giorni iniziarono i primi episodi di violenza. I prigionieri erano costretti a pratiche umilianti, come pulire i gabinetti a mani nude o simulare atti di sodomia. I pochi episodi isolati di rivolta venivano duramente repressi.

Il quinto giorno i prigionieri iniziarono a mostrare segni di squilibrio nel rapporto con la realtà, apparivano docili e totalmente passivi alle pratiche sadiche delle guardie.

L’esperimento, la cui durata prevista era di 2 settimane, fu interrotto il sesto giorno, il 20 agosto del 1971, a causa della situazione drammatica che si era instaurata nella prigione.

L’effetto Lucifero e la banalità del male

Il male è insito nelle persone oppure anche le persone perbene possono trasformarsi in mostri capaci di qualsiasi brutalità?

Una prima analisi allo studio del fenomeno del genocidio proviene da Hannah Arendt in La banalità del male, libro che nasce dai resoconti sul processo del gerarca nazista Eichmann. La sua riflessione sulla natura del male rivela quanto sia banale e, per questo motivo, ancora più terrificante. Eichman non era che un burocrate che eseguiva gli ordini senza curarsi delle conseguenze. Non un’indole maligna.

«Il processo ad Eichmann diede occasione a molti di riflettere sulla natura umana e dei movimenti del presente. Eichmann tutto era fuorché anormale: era questa la sua dote più spaventosa. Sarebbe stato meno temibile un mostro inumano, perché proprio in quanto tale rendeva difficile identificarvisi. Ma quel che diceva Eichmann e il modo in cui lo diceva, non faceva altro che tracciare il quadro di una persona che sarebbe potuta essere chiunque: chiunque poteva essere Eichmann, sarebbe bastato essere senza consapevolezza, come lui. Prima ancora che poco intelligente, egli non aveva idee proprie e non si rendeva conto di quel che stava facendo. Era semplicemente una persona completamente calata nella realtà che aveva davanti: lavorare, cercare una promozione, riordinare numeri sulle statistiche, ecc… Più che l’intelligenza gli mancava la capacità di porsi il problema delle conseguenze e degli impatti delle proprie azioni.»[6]

«Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso.»[6]

Lettura di approfondimento: H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, 1963

Zimbardo sostiene che la trasformazione, nella persona che arriva a commettere azioni mostruose, è frutto dell’interazione tra fattori disposizionali (ad es. il conformarsi acriticamente alle norme di gruppo), situazionali e sistemici.

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Lo scandalo di Abu Ghraib: le mele marce esistono?

Durante la guerra in Iraq del 2003 furono commesse una serie di violenze, atrocità, torture, stupri e omicidi nei confronti dei detenuti della prigione di Abu Ghraib da parte di soldati dell’Esercito degli Stati Uniti e agenti della CIA (Central Intelligence Agency). Il caso venne alla luce perché vennero diffuse numerose foto online degli episodi di tortura, poiché quasi tutti i soldati avevano un cellulare con la fotocamera. Gli abusi vennero portati all’attenzione generale dalla CBS News nell’aprile del 2004. Gli episodi furono da subito condannati dagli stessi USA e dagli stati esteri.

L’amministrazione Bush dell’epoca cercò di liberarsi da ogni responsabilità affermando che si trattava di mele marce, di soldati deviati e che il sistema operava nella piena trasparenza. Sfortunatamente, si scoprì che non si trattava di episodi isolati, bensì che l’autorizzazione di “togliersi i guanti di velluto” proveniva dalle alte gerarchie militari. Quindi:

“Chi sono i responsabili? Chi sono le mele marce?”

La domanda, invece, merita di essere riformulata in

“Cosa è responsabile?”

Sicuramente un “cattivo contenitore”:

«Il potere è nel sistema. Il sistema, in cui si mescola potere politico, economico e culturale, crea la situazione che corrompe l’individuo. E questo è il potere dei costruttori di cattivi contenitori.»[1]

«Questo è l’effetto Lucifero. Se dai alle persone potere senza supervisione, è una ricetta per ottenere abusi. Lo sapevano e lo hanno lasciato succedere.»[1]

I 7 processi che facilitano la discesa verso il male

Quando ci troviamo in una situazione nuova e poco familiare, gli schemi abituali di risposta non funzionano. Ecco i 7 fattori chiave che facilitano l’effetto Lucifero, ovvero permettono la trasformazione del male in persona:

  1. Fare il primo passo senza pensare
  2. Deumanizzare gli altri
  3. Anonimizzazione di se stessi
  4. Eterodirezione: allentamento della responsabilità personale, interpretare il proprio agire come esterno
  5. Obbedienza cieca all’autorità
  6. Conformarsi acriticamente alle norme di gruppo
  7. Tolleranza passiva del male attraverso inazione o indifferenza

«Il libro del Dr. Z “L’Effetto Lucifero”, pur concentrandosi sul male, in realtà è una celebrazione dell’infinita capacità della mente umana di farci essere gentili o crudeli, compassionevoli o indifferenti, creativi o distruttivi, e di far diventare alcuni di noi dei criminali. E la buona notizia che spero di raggiungere alla fine è che fa diventare alcuni di noi degli eroi.»[1]

Chi sono gli eroi e come lo diventano

L’altra faccia della medaglia, o meglio non solo “effetto Lucifero”, è che le persone non solo possono diventare carnefici, ma anche eroi.

«I nostri eroi sociali tradizionali sono sbagliati, perché loro sono eccezioni. Organizzano tutta la loro vita intorno all’essere eroi. Ecco perché li conosciamo per nome. E gli eroi dei nostri figli sono anche i loro modelli, perché hanno poteri soprannaturali. Noi vogliamo che i bambini capiscano che gli eroi sono persone normali, e che l’atto eroico è insolito.»[1]

Il sistema può innescare i comportamenti aggressivi, ma la buona notizia è che può anche ispirare l’immaginazione eroica. Coloro che scelgono di deviare, di resistere al sistema, sono persone normali che compiono azioni straordinarie, sono eroi. Le chiavi di volta dell’eroismo sono due:

  1. Agire quando gli altri sono passivi, non reagiscono
  2. Agire pensando in modo sociocentrico, non egocentrico

Bibliografia:

[1] Philip Zimbardo, Persone normali che diventano mostri… o eroi, TED, 2008

[2] Philip Zimbardo, L’effetto Lucifero, Raffaello Cortina Editore, 2007

[3] E. Aronson, T.D. Wilson, R.M. Akert, Psicologia sociale, Il mulino, 2010

[4] Palmonari, Cavazza, Ricerche e protagonisti della psicologia sociale, Il Mulino, 2004

[5] Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del Dr. Keyll e Mr. Hide, 1886

[6] Hannah Arendt, La banalità del male (1963)

Immagine di copertina: ©Isabel Castaño. www.isabelcastano.com

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